Montgomery osservava la sua pinta di scura. Seguiva incantato le traiettorie delle bollicine che salivano fino all'orlo e sparivano. Gli sembrava che anche la birra stesse guardando lui. Una sorta di tacito duello, l'uomo contro il malto fermentato.
- ...e così ho preferito rimanere all'università, se non come studente da inserviente. L'ambiente mi piace, ormai non potrei più farne a meno. - Ics bevve una nuova sorsata della sua bionda. Montgomery si rese di nuovo conto di non essere da solo e decise di abbandonare lo scontro con la sua pinta. Portò l'orlo del bicchiere alle labbra, e trasse un sorso pacificatore.
- Dove hai detto di avere studiato? - disse Ics subito dopo aver posato il suo bicchiere.
- Miskatonic. Arkham. - Rispose Montgomery.
Ics lo guardò e sorrise. - Bella battuta! No, dai, sul serio...
Montgomery sembrò perplesso. - Come sul serio?
- Dai su, non prendermi in giro - altra risata.
- La Miskatonic University di Arkham. Che c'è di strano?
Ics lo guardò preoccupato. - Leggi troppi racconti dell'orrore, ragazzo. Be', piacciono anche a me, dopotutto. - una breve risata. - Allora? Mi dici dove hai studiato? Dai, su, davvero...
- Ho detto alla Miskatonic! - Montgomery stava cominciando ad irritarsi - si trova qui vicino, ad Arkham. Sono pochi chilometri.
- Arkham è un posto inventato... -
Ics lo guardò seriamente.
- Smettila... - esitò un attimo - ci ho studiato. Ho studiato alla Miskatonic di Arkham!
- Si, va bene. Ci rinuncio. - Ics si voltò - Cameriera un'altra.
- Anche per me, dolcezza - ne ordinò una anche Montgomery.
Il resto della serata proseguì tra chiacchiere e visioni del mondo. Non toccarono il delicato argomento Arkham.
- Serata piacevole, ragazzo. Era da tanto che non lo facevo. -
Ics scese dalla decappottabile.
- Si, per me è stato un onore parlare con un dottore laureatosi ad Harvard. - sorrise.
I due si salutarono. Montgomery si avviò, pensieroso. Dopotutto nessuno mostrava di conoscere la sua università, nonostante si trovasse cos' vicino a Boston. In effetti, non aveva mai visto altri studenti che provenissero dalla stessa università. E se il vecchio avesse detto il vero? Controllò l'orologio. Mezzanotte e un quarto. Domani avrebbe avuto lezione, ma in quel momento aveva bisogno di controllare una cosa. La sua sicurezza stava vacillando. Il motore rombò non appena girò la chiave. La macchina partì, sgommando.
La statale proseguiva. Mancava poco all'uscita per Arkham. Svoltò su una stradina secondaria che proseguiva verso nord, ricordandosi dove avrebbe dovuto svoltare ancora, subito dopo la stazione di servizio di Larry. I fari della macchina emanavano sinistri aloni nella nebbia che vorticava per la strada. Era umido, ma non freddo, e questo favoriva i banchi di nebbia a discapito della visibilità.
Scorse in lontananza la stazione di servizio. Due distributori di fronte ad un piccolo fabbricato di legno e ruggine. Rallentò, perplesso, non appena vide l'insegna. Penzolava appesa al palo. Mosse lo sguardo ai distributori. Erba e rampicanti ne avevano preso possesso, e chissà da quanto non venivano utilizzati. La porta, scardinata cigolava, la serratura ormai corrosa dalla ruggine, il vetro superiore il frantumi. Possibile che Larry avesse abbandonato il posto? Lo ricordava come un vecchio serio e composto, piuttosto taciturno. Forse un po' troppo chiuso di vedute. Be', il Vietnam l'aveva cambiato. Aveva cambiato tutti, suo padre continuava a ripeterlo. Riportò i suoi pensieri alla stazione. Da quanto mancava in quel luogo? Una decina d'anni. In dieci anni, pensò, guarda cosa può combinare il tempo. Proseguì sulla piccola stradina per un paio di chilometri, aspettando di intravedere lo svincolo. Non lo vide. Accostò, pensieroso. Si, si era sbagliato, non c'era alternativa. Aveva preso qualche strada sbagliata. No, era sicuro che fosse la strada giusta. E sarebbe praticamente dovuto già essere in città. Scese dalla macchina e si avvicinò alla vasta prateria che scorgeva di fronte. Brancolò per una mezz'ora avanti ed indietro, scrutando in cerca di luci e villaggi nella zona. Nulla.
Cominciò a rabbrividire. Lui c'era stato, lo sapeva. Aveva frequentato all'università, uno splendido campus nel mezzo della città, ricordava il complesso, la biblioteca, i due dormitori. Ricordava il Garden Cafè, giusto fuori il complesso, in cui quando non gli andava di seguire si recava assieme al suo compagno di stanza, Harvey Walters, per assaggiare un ottimo caffè, forse il migliore della città. Harvey, chissà che fine aveva fatto. Aveva riempito fin da subito la sua camera di libri, ed agli inizi lui l'aveva creduto un secchione che non sapeva come divertirsi. Invece l'apparenza l'aveva ingannato, ed aveva scoperto subito che anche ad Harvey i festini non dispiacevano. Bei tempi quelli dei festini. Invitavano tutti gli studenti del dormitorio nel loro corridoio e schiamazzavano per tutta la notte. Peccato non ci fossero studentesse. Riflettè un attimo.
Studentesse. Montgomery ricordava che i dormitori fossero due. Ma nessuno dei due era femminile. Gli venne un dubbio. Aveva già sentito parlare di Lovecraft. Era vissuto attorno alla prima metà del 900. In quel periodo non tutte le università erano aperte alle donne. Ma l'emancipazione completa era di molto precedente gli anni in cui aveva frequentato. Non era possibile che la Miskatonic fosse un'università solo maschile. Non con le donne che si vedevano in giro negli ultimi tempi. Avrebbero crocefisso al contrario qualunque uomo cercasse di trattenerle dall'emanciparsi. Il pensiero lo fece ridacchiare. Poi si fermò. Si fece serio. Lovecraft. Lui aveva scritto di Arkham. Ricordò di aver letto qualche suo racconto. Era possibile che avesse preso spunto da quelle storie per creare una realtà partorita dalle fantasie di qualcun altro? Rabbrividì al pensiero. Lui non era mai stato alla Miskatonic. Ma allora come era possibile che conoscesse qualche principio di medicina? Anche ad Arkham lo avevano affermato. Per un attimo la sua sicurezza venne meno. Fu sostituita da un senso di orrore, che si annidò al suo stomaco. Ma il suo cervello continuava a cercare di comprendere. Ritornò alla macchina. Frugò nel bagagliaio. Johnnie Walker. Whisky scozzese, che preferiva a quello americano. Diede una lunga sorsata e si accomodò sul sedile del proprio veicolo. Continuò a bere.
Il rumore di un cancello che sbatteva lo svegliò. Si stiracchiò e guardò il sedile al suo fianco. La bottiglia era vuota. Dio, quanto aveva bevuto? Guardò l'orologio. Le 3 e 25. Era tardi. Sbadigliò e fece per mettere in moto il veicolo. Attraverso il parabrezza vide un cancello. Si guardò intorno, esterrefatto. Era all'incrocio tra Coolidge e College Street. Riusciva a scorgere il complesso universitario, dove il cancello semiaperto sbatteva al vento. Scese dalla macchina. Sorrise. Era ad Arkham. Allora esisteva, non si era sbagliato. Nuovo entusiasmo lo percorse, misto ad un pizzico di nostagia, nel rivedere i luoghi della sua tarda giovinezza. Il museo, la banca, il Garden's Cafè... erano tutti chiusi - vorrei ben vedere - pensò - è notte fonda.
Il rumore del cancello attirò ancora la sua attenzione. Perché no? Una visita al campus non gli avrebbe fatto male. Superò l'ingresso e passeggiò per il giardino. Vide l'ala Est del dormitorio. La nostalgia lo spinse ad entrare nell'edificio. L'ingresso era chiuso, ma se non ricordava male... da sotto lo zerbino estrasse la chiave ed aprì la porta. In silenzio si avviò al terzo piano. Ricordava in fondo al corridoio camera sua... chissà se era occupata? Fece per avvicinarsi, ma passando accanto ad una finestra sentì un rumore provenire da fuori. Una macchina d'epoca, molto vecchia, avrebbe detto intorno agli anni 30, passò per la strada silenziosa. Anni 30? Sorrise... ah, le coincidenze. Il suo sguardo cadde sul tavolino posto vicino il pianerottolo accanto alla sua vecchia camera. E sbiancò. La data era 17 Dicembre 1926. Com'era possibile? Provò ad usare i suoi poteri sul giornale, per capire cosa fosse successo. Per capire come mai il Tempo non era più quello di una volta. Si fermò all'improvviso. La sua stanza. Forse con i suoi poteri avrebbe capito cosa era accaduto. Si concentrò con tutto se stesso per alterare il destino. Poteva manipolarlo, lo sapeva, per fare in modo che un piccolo colpo di fortuna lo aiutasse. Girò il pomello. La porta era aperta. Si erano dimenticati di chiuderla. Mestamente, sorrise, ed entrò.
La stanza era buia. Cercò a tentoni l'interruttore. Se non ricordava male doveva seguire il piccolo corridoietto e sarebbe arrivato alla lampada. Continuò a camminare tenendo una mano sulla parete, nel buio, per diversi minuti. Ma era davvero così grande la camera? Tastò qualcosa sulla parete. L'interruttore. Lo azionò. Una fioca luce si accese di fronte a lui. Vide un'altra porta. Di legno massiccio, piuttosto consumata. Alla luce delle lampade risaltava un simbolo verniciato di rosso sulla porta. Una specie di stella, molto stilizzata, con un occhio piuttosto strano nel mezzo. La pupilla continuava innaturalmente verso l'alto, così che desse l'impressione di una fiamma. Era sicuro che la sua stanza fosse più avanti. Forse il corridoio c'era sempre stato. Solo non lo ricordava. Spalancò la porta. Fu risucchiato dentro.
Davanti a se c'era un immenso bulbo oculare, le vene grandi quanto un grattacielo confluivano nella pupilla rossa da tutta la circonferenza. Tentacoli, come dei una corona si agitavano frenetici attorno al bulbo. Braccia di creature orrende si riversavano fuori dalla massa di carne e zanne che occupava tutto lo spazio e da cui sembrava che l'occhio traesse origine e nel contempo che la massa purulenta fosse generata da esso. La scena per un attimo, forse uno degli ultimi attimi di sanità della sua mente, gli dava l'impressione di un grottesco cielo di terrore in cui splendeva un macabro sole di cui i tentacoli erano i raggi e l'occhio la sua materia. Fissò la pupilla. Riluceva di follia ed ira; non c'era intelligenza in essa, non c'era raziocinio. La forma fisica della distruzione. E lui era in caduta libera verso di essa. Non resse ulteriormente. Quello che vide in seguito furono gli orrori che mai aveva visto nemmeno nei suoi incubi peggiori. Si trovava d'improvviso in un'immensa pianura, il profilo delle montagne all'orizzonte era alieno e terribile. In lontananza, un immensa creatura sferica, un mondo di tentacoli, bocche fameliche, pseudopodi volava nel cielo. Gigantesche creature simili a vermi con una grossa bocca ricoperta di zanne straziavano il suolo della pianura. Da oltre l'orizzonte sorse un'immensa figura, un'essere dalle fattezze umanoidi, con enormi ali e il volto di un polpo. Gli si avvicinò un essere umano. Piuttosto alto di statura, aveva la carnagione piuttosto scura, tra il bruno e l'olivastro, ed una barba che ricordava quella di una sfinge. Montgomery si gettò ai suoi piedi, piangendo ed implorando. L'uomo crebbe in statura, fino a diventare un immenso essere ricoperto di scaglie nere, tripode, che al posto del volto aveva un grosso tentacolo ricoperto di bocche fameliche. Con una delle braccia artigliate lo afferrò e lo divorò.
Il cellulare lo svegliò. Si tastò il corpo. Era sudato, ma vivo. Gli faceva male la testa. Rispose al telefono.
- P...pronto?
- Shogun, dove diavolo sei?? E' tutta la mattinata che ti cerco! - la voce di Morpheus, il suo mentore, che gli aveva insegnato ciò che c'era bisogno di sapere sui Risvegliati.
- Sono, fuori città... tornerò a breve...
- Come va ad Harvard? Come procede il piano?
- Bene... oggi ho intenzione di attuarlo.
- Perfetto. Aspetto tue notizie per domani. - Morpheus attaccò il telefono. Montgomery controllò l'ora. Le 9 e 55. Morpheus aveva fatto i salti mortali per svegliarlo a quell'ora. Di solito il mentore dormiva fino al primo pomeriggio. Si guardò intorno. La città era sparita. Si rese conto finalmente che il luogo non esisteva. Avviò il motore, era ora di andare. Già, Arkham non esisteva. Ripensò al sogno, e rabbrividì. Per fortuna, era solo un sogno. Per fortuna.
EPILOGOEra mezzogiorno passato quando Montgomery tornò a casa. Azionò il telecomando del cancello elettrico, che in tutta risposta si aprì, lasciandolo entrare. Scese dalla macchina e per un attimo guardò il "Putto che vomita", una scultura regalatagli di un'altra Risvegliata... si chiamava Aoi, l'aveva conosciuta insieme al marito Faustò. Ed un bel giorno si era presentata al bar interrompendo una partita a Black Jack tra lui e Morpheus e regalandogli la scultura, un inusuale accostamento tra il neoclassico, il pulp, il gusto scialbo di uno stilista neozelandese e il cassonetto dei rifiuti fuori casa sua, che ritraeva un simpatico putto che doveva decisamente avere alzato il gomito. Ripensò alla sera prima, anche lui aveva esagerato. E con tutto quello che aveva passato il giorno prima, non gli aveva fatto bene alla psiche. Entrò in casa. Salutò Foscari, il suo affittuario italiano, che era in cucina a prepararsi una spremuta di pompelmo. Lui in tutta risposta lo guardò fisso, boccheggiando.
- Vuoi dirmi qualcosa? - chiese Montgomery.
- Che hai fatto in testa? - continuava a guardarlo fisso.
Montgomery si girò e si guardò nello specchio. Un ciuffo dei suoi lunghi capelli castani gli pendeva davanti agli occhi. Per metà, a partire dalla radice, era diventato bianco.
- Come ti è successo? Cosa hai fatto ieri sera? - continuò Foscari.
- Lascia stare.- Estrasse un paio di forbici e tagliò la metà ancora colorata del ciuffo. - Non parliamone.